Una storia mai raccontata: i gas italiani nella Prima guerra mondiale

Italiani brava gente? Può darsi. Ma i gas nell’Esercito italiano già nella Prima guerra mondiale, ebbero un posto di assoluto rilievo. Generalmente, in Italia quando si parla dell’impiego dei gas nella Prima guerra mondiale ci si limita a menzionare l’eccidio dei nostri soldati a Monte San Michele o a Plezzo e la leggenda degli Austriaci che finivano con mazze ferrate i soldati italiani già agonizzanti per i gas. Neanche un accenno all’impiego dei gas da parte italiana o all’imponente apparato industriale che questi gas produceva e che permise all’Italia, due decenni più tardi, di seminare stragi in Etiopia. Pochissimi i testi a tal riguardo, tra i quali il fondamentale “La guerra dei gas : le armi chimiche sui fronti italiano e occidentale nella Grande Guerra”, (segnalatomi dal prof. Nicola Labanca che desidero qui ringraziare) dal quale ho attinto alcune informazioni utilizzate per scrivere questo breve articolo, che si avvale anche delle documentazioni fornitemi da Walter Rossi, Luca Morandini e altri componenti del Gruppo di discussione it.cultura.storia.militare.

FS

 


 

Questo articolo è stato scritto per la sezione “Approfondimenti” del sito Centoannidiguerre


 

Agli albori della Prima guerra mondiale l’uso dei gas risultava proibito dalla Convenzione dell’Aia del 1899 firmata da quasi tutte le nazioni (gli Stati Uniti si astennero: “l’inventiva degli Americani non deve essere limitata per lo sviluppo di nuove armi.“) che parteciparono poi al conflitto . Ma più del Diritto umanitario o della ripugnanza che, ancora oggi, suscita questo sistema d’arma, nel 1914 a far scartare l’uso dei gas in battaglia – già usati con un certo “successo” durante la seconda Guerra anglo-boera (1889-1902) – contribuiva l’illusione della “guerra lampo”: un conflitto di qualche settimana nel quale l’irrompere delle  armate nel cuore del territorio nemico avrebbe comportato la resa. Ma ben presto gli eserciti si impantanarono e la costante presenza di un nemico – a poche centinaia di metri – rintanato in ben difese trincee finì, quindi, per far prendere in considerazione l’opportunità di inondarlo con gas velenosi. Ad occuparsi degli aspetti  tecnici della nuova arma, innumerevoli scienziati: in Germania, sopra tutti,  Fritz Haber (insignito, nel 1918, del Premio Nobel per la Chimica); in Italia, l’insigne cattedratico Emanuele Paternò.

1La pubblicistica su Paternò (ancora oggi la Società Chimica Italiana premia i suoi soci più meritori con una medaglia al suo nome) è, tuttora, ammantata di stucchevoli celebrazioni accademiche ed elencazioni delle sue onorificenze. Difficile, quindi, ritrovarvi un qualche riferimento alla sua attività di Presidente della Commissione Gas Asfissianti o al suo determinante contributo alla mattanza nelle trincee. A tal  riguardo certamente è illuminante la risposta di Paternò a chi proponeva di sviluppare come gas di guerra, tra gli innumerevoli composti che l’industria chimica metteva a disposizione,  quelli più “umanitari” e cioè gli “sfollanti” (quali, i lacrimogeni, ancora oggi usati dalle polizie di tutto il mondo): “È dolorosa necessità l’impiegare sostanze non semplicemente disgustose; ma è indispensabile anche per l’effetto morale sul nemico, che si usino sostanze che producano la morte nel minor tempo possibile, e quanto meno che si rendano i colpiti inabili per molto tempo; le sostanze semplicemente evacuanti possono spaventare solo la prima volta per la loro novità.”

3Ma Paternò non fu il solo scienziato italiano responsabile della atroce morte di tanti soldati. L’elenco degli accademici è lungo: Leone Levi Bianchini, Angelo Cittadini, Piero Fenaroli, Ostilio Severini, Alfredo Cucchini, Giovanni Acuto, Demetrio Helbig… Per identificarli basta effettuare ne “La Chimica italiana”, volume celebrativo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, una ricerca basata sul termine Fosgene.

nortalità cloroA differenza degli altri due gas più utilizzati nella Prima guerra mondiale – il Cloro e l’Iprite, che manifestano subito la loro presenza con irritazione agli occhi e con vesciche –  i sintomi del Fosgene (cloruro di carbonile) si manifestano tra le 24 e le 72 ore dalla sua inalazione. Combinandosi con l’acqua presente nei tessuti del tratto respiratorio il Fosgene gas attacca lentamente le membrane delle cellule esposte causando il riempimento delle vie respiratorie di liquido e una quasi irrimediabile e atroce morte per soffocamento. Magari quando la vittima crede di essere già scampato all’attacco con i gas o, addirittura, è lontano dal campo di battaglia. E fu proprio questo gas utilizzato dall’esercito italiano e prodotto negli stabilimenti Rumianca, a Pieve Vergonte in Val d’Ossola, nelle industrie Bussi a Bussi sul Tirino in provincia di Pescara e negli Stabilimenti Pomilio a Napoli. Nel gennaio 1916 il Sottosegretariato per le Armi e Munizioni segnalò al Comando Supremo che il primo contratto per la produzione di fosgene e di 25 mila bombe a caricamento chimico era stato stipulato dopo “lunghe e laboriose trattative” con la Società Anonima Banca Centrale per le Industrie poiché il prezzo concordato di 15 lire al kg. di fosgene – già giudicato “eccessivo” dalla Commissione di collaudo, era stato, alla fine, accettato, “considerate le circostanze del momento”. Probabilmente, non fu questo l’unico strappo alla regola considerato che le impellenze del conflitto affollavano i corridoi del Ministero della guerra di industriali e inventori che cercavano di spacciare i loro ritrovati come efficacissimi gas venefici.

5Complessivamente la produzione italiana di gas bellici ammontò a circa 13.000 tonnellate. Saranno usati soprattutto durante la Battaglia della Bainsizza nell’agosto 1917.  Significativamente poche le pubblicazioni italiane che documentano l’uso del gas in queste battaglie. Non resta, quindi che affidarsi ad un rapporto militare austriaco, «La durata dei tiri a gas italiani era molto diversa, gli ingassamenti di determinate località duravano generalmente più ore. In un caso il nemico tirò per nove ore a gas, impiegando 3.500 granate speciali, ma di massima le batterie furono esposte ai gas per più di cinque ore. Il tiro veniva eseguito per la maggior parte di notte, o nelle prime ore del mattino, per cogliere nel sonno gli uomini, per ostacolare i rifornimenti, inoltre stancare le truppe con continui allarmi e finalmente perché, nelle ore notturne, vi è maggior calma di vento. Inoltre il tiro notturno a gas promette il massimo risultato possibile, giacché l’attività a difendersi dai gas è minore da parte di truppe piene di sonno, e riesce più difficile di notte riconoscere il tiro a gas dagli altri».

2A differenza di quanto accaduto in Germania immediatamente dopo la Grande guerra, nonostante la Convenzione dell’Aja, nessun accademico, ricercatore, militare o industriale italiano ha avuto alcun problema per aver sviluppato o utilizzato gas tossici.

Il 25 novembre 1918, Emanuele Paternò fu nominato Presidente della Commissione d’accusa dell’Alta Corte di giustizia.

Si stima che, in Europa, durante la Prima guerra mondiale siano state diffuse circa 50.000 tonnellate di gas: 1.200.000 coloro che ne hanno subito danni perpetui (tra cui moltissimi i ciechi), 85.000 i morti.

 

2 pensieri riguardo “Una storia mai raccontata: i gas italiani nella Prima guerra mondiale

  • 29 dicembre 2015 in 18:15
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    Carissimi, ringraziandovi per gli interessanti spunti (assai godibile la testimonianza dei recuperanti di Plezzo), mi corre l’obbligo di segnalare un paio di inesattezze;
    – in primis la località slovena di Bovec in italiano è PleZZo e non PleSSo;
    – Battaglia della Bainsizza e XI battaglia dell’Isonzo sono lo stesso avvenimento, risalente all’agosto del 1917;
    – 24 – 25 ottobre 1917 sono date riferite a Caporetto, o XII Battaglia dell’Isonzo;
    Inoltre vorrei capire perché l’uso delle mazze ferrate sia catalogato come “leggenda”; abito in provincia di Gorizia e molte mazze sono visibili nei nostri musei. Non credo venissero usate per schiacciare le noci! Del resto la letteratura parla di svariate armi, anche improvvisate, usate dagli eserciti su tutti i fronti. Particolarmente apprezzata era la vanghetta, assai più utile del fucile (lungo come una lancia e pesante fino a 5 kg) nei combattimenti ravvicinati. Da qui la mia perplessità nell’uso della parola “leggenda”.
    Detto ciò, ribadisco il mio apprezzamento per i vostri contributi. Ricordo tuttavia che l’uso di gas e in generale lo scarso valore attribuito alla vita umana sono un elemento che accomuna tutti i paesi belligeranti dell’epoca. Grazie e buon lavoro!

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    • 14 febbraio 2017 in 22:14
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      Intanto grazie per le segnalazioni
      Dopo qualche controllo, ho provveduto a correggere Plesso in Plezzo e citare solo la Battaglia della Bainsizza. Per quanto riguarda le mazze ferrate, invece, queste – al pari della famigerata “vanghetta”, di pugnali, tirapugni chiodati, e altri strumenti – erano certamente corredo di numerosi soldati di vari eserciti ma, a quanto mi risulta, venivano utilizzate soltanto per essere usati durante l’assalto alle trincee nemiche. Tra l’altro ci sarebbe da domandarsi quale logica – se non una improbabile ragione umanitaria – avrebbe dovuto spingere gli Austriaci ad entrare nelle trincee ancora inondate dai gas, piegarsi sui soldati intossicati per togliere ad essi l’elmetto e sferrare il famigerato colpo alla testa – tramandatoci da innumerevoli manifesti della propaganda italiana – che sarebbe stato finalizzato solo ad accelerare una morte che sarebbe, certamente venuta di lì a poco.
      Francesco Santoianni

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