Le spoglie di Re Artù in un sepolcro senza nome nel Coemeterium nolano di San Felice a Cimitile? È la sconvolgente ipotesi che, il 30 aprile, verrà discussa nel convegno “Da Cimitile a Camelot Enigmi millenari della storia europea e intriganti possibili risposte provenienti dall’Agro Nolano e dalla Campania” che si terrà all’Università di Bochum in Germania. Ne abbiamo parlato con lo storico Antonio Trinchese, Console d’Italia a Dortmund e principale relatore al convegno.
<<L’ipotesi che identifica Re Artù con il legionario dell’impero romano Lucius Artorius Castus – comandante 5500 Sarmati, cavalieri “corazzati” ausiliari dell’esercito romano, trasferiti in Britannia a difendere le frontiere dell’impero – è di antica data ed è confermata da recenti studi epigrafici condotti dai ricercatori americani, Scott Littleton e Linda Malcor. Lo stendardo dei cavalieri Sarmati era il Drago, il loro principale culto la spada conficcata nel terreno e sarebbe da far risalire al loro trasferimento in Britannia un variegato corpus di leggende, molto simile ai racconti arturiani, che ritroviamo nei loro discendenti: gli attuali Osseti del Caucaso. Ma c’è dell’altro. Come il Re Artù della leggenda (detto “Arturius” nei primi testi latini) Lucius, Artorius Castus riveste il titolo di “Dux”, guida una spedizione in Gallia contro una rivolta di disertori e, soprattutto, sconfigge gli “Invasori dal Nord”: i Pitti.e Caledoni. Per di più, secondo il racconto di Goffredo di Monmouth, l’avvento di Artù fu accompagnato da uno “straordinario evento celeste” e una esplosione di una Supernova fu vista sul nostro pianeta proprio nell’anno della campagna condotta dal “Dux” Artorius in Gallia, il 185.>>
<<185? Ma le gesta di Re Artù sono sempre state collocate nel V-VI secolo.
<<Intanto, non è mai stato identificato un personaggio nel V secolo che avesse una convincente similitudine con il mitico re. È invece probabile che le gesta di Artorius, precedenti di tre secoli, siano state fuse nella tradizione orale con alcuni eventi del V secolo, per essere poi trascritte per la prima volta da Nennio, nel suo Historia Brittonum risalente al IX secolo. E tutte le altre identificazioni di un “Re Artù” con personaggi vissuti dopo il IX secolo (come San Galgano raffigurato nella Cattedrale di Modena, un enigmatico cavaliere raffigurato in un mosaico della cattedrale di Otranto o nella leggenda di Re Artù nell’Etna…) lasciano il tempo che trovano. Nel nostro caso, invece, riscontri epigrafici e talmente tante similitudini (nel nome, nelle imprese, nelle cariche ricoperte, nel contesto storico e geografico) ci fanno escludere l’ipotesi di semplici coincidenze facendoci propendere, invece, verso una reale connessione fra il comandante romano e il re delle leggende.>>
E che cosa indicherebbe l’origine nolana di Artorius?
<<Intanto, la diffusione del nomen gentilizio Artorius e del cognomen Castus nell’area di Nola, dove furono reclutati i legionari della III Legione Gallica, impegnata contro i Pitti.e Caledoni. Non dimentichiamo, tra l’altro, che Nola, dove, il 14 dopo Cristo, morì l’imperatore Augusto, e dove fiorì il culto dell’imperatore divinizzato, era dimora di numerosi ufficiali dell’Impero che qui ambivano vivere ed essere seppelliti. C’è, infine, la vicinanza di Nola ad Avella; nome che rimanda, ad Avalon e cioè “mela” in molte lingue (inglese “apple”, tedesco “apfel”, etrusco “abblona” etc.). E la mela ha sempre avuto, per gli antichi, un significato magico o mistico. In Monmouth, Avalon è esplicitamente denominata “Isola delle mele” ed è collegata a donne, parenti di Artù, legate magicamente all’acqua. Non a caso, Avella, situata ai piedi di Montevergine, (già noto come “Mons Vergilianum” legato alle leggende medievali su Virgilio Mago e sul miracoloso ‘”orto dei semplici” da lui piantato) è ricordata da San Paolino “Mater aquarum”; da Avella, infatti, nasceva il fiume Clanio che irrigava la pianura nolana.>>
Esiste un legame fra il personaggio storico Artorius e le leggende sul Graal?
<<Non direttamente, almeno allo stato attuale delle ricerche, ma esiste invece un filo sottile che lega il Graal a Nola. La Malcor ha collegato la mitologia sarmato/alanica sulle “coppe sacre” con la diffusione delle leggende sul Santo Graal, che furono originate probabilmente nella Francia meridionale nel V secolo. In quel periodo, sia come alleati dei Goti sia autonomamente, consistenti nuclei di Alani (tribù sarmata) si insediarono in quella regione, ma parteciparono anche al sacco di Roma, assieme ai Goti di Alarico, nel 410 d. C.. In quell’occasione – come ci ricorda lo storico Procopio – fu sottratta una preziosa coppa proveniente dal tesoro del Tempio di Salomone portato a Roma ai tempi di Tito e Vespasiano. Successivamente i Goti e gli Alani si spinsero a Nola, dove catturarono il vescovo Paolino, e in Calabria per poi tornare a Tolosa, capitale del loro regno nella Gallia meridionale.
Un protagonista delle relazioni fra Goti, Alani e Romani in quella regione fu Paolino Paelleus, (vescovo di Perigueux e maestro dell’altro Paolino, vescovo di Nola) ed è interessante notare l’assonanza fra il nome “Paelleus” e il “Pelles” custode del Graal nei racconti medievali. Per di più, secondo il racconto di Goffredo di Monmouth, il maestro di Galvano, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, si chiama Sulpicio Severo: lo stesso nome di un amico di Paolino di Nola; e un altro amico di Paolino, l’eretico Pelagio, era un britannico di nome Morgan, le cui idee ebbero una grande influenza nella Britannia del tormentato periodo post-romano, teatro delle presunte gesta di Artù. Esistono, infine, richiami iconografici nel complesso basilicale paleocristiano di Cimitile (già “Coemeterium” di Nola) che riportano alle leggende medievali del Graal, di Maria Maddalena e di Giuseppe d’Arimatea, dove si parla anche di un “Re Orso”. Una peculiare raffigurazione della Mad-dalena Incoronata, in particolare, ha fornito lo spunto all’ingegner Scala, cultore della storia del cristianesimo, per un raffronto con i richiami gnostici presenti nella “Leggenda Aurea” di Iacopo da Varagine e con il Mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, nel quale è raffigurato anche Re Artù.>>
È possibile che la tomba di “Re Artù”, e cioè di Artorius, si trovi a Cimitile?
<<Nei secoli la necropoli nolana è stata completamente cristianizzata e i sarcofagi romani riutilizzati quali sepolture cristiane. Resta una forte suggestione nell’osservare un sarcofago di età imperiale (II-III secolo), probabilmente dello stesso periodo in cui morì Artorius Castus, collocato sotto un arcosolio sul quale è raffigurato l’Agnus Dei, un simbolo considerato nel Medioevo un’altra possibile rappresentazione del Graal (che, per alcuni, era non la Coppa dell’Ultima Cena ma il vassoio sul quale venne servito l’agnello). L’Agnus Dei era un simbolo molto usato anche dai Templari, la cui presenza nel territorio nolano è testimoniata da numerosi elementi.
I Templari furono identificati come i custodi del Graal nel “Parzival” di Wolfram Von Eschenbach. L’epigrafe che ci parla di Artorius è stata rinvenuta in Dalmazia, dove ricopriva la carica di “Procurator”, ma fu incisa mentre lui era ancora in vita. Non è detto che gli eventi susseguenti alla morte di Commodo e che culminarono nell’ascesa al trono imperiale di Settimio Severo non possano aver determinato un suo imprevisto ritorno in Campania, con un rango superiore. In quel caso avrebbe ben potuto essere sepolto nella necropoli della città dove era morto il primo imperatore, il Divo Augusto. Il sarcofago citato riproduce il mito di Persefone/Proserpina, figlia della dea Cerere. La Malcor, sulla base di evidenze epigrafiche, ritiene che gli Artori fossero particolarmente devoti alla dea Flora, anch’essa figlia di Cerere e, forse, una diversa denominazione di origine sannita della stessa divinità. È curioso notare che i riti legati a Cerere e alle connesse divinità dell’agricoltura sembrano perpetuarsi in maniera peculiare nella Festa dei Gigli di Nola, città che, come la vicina Pompei, era stata a lungo sannita; un ulteriore indizio, forse, di una possibile connessione fra Artorius, Flora e Nola.>>
Articolo di Francesco Santoianni
Pubblicato su “Il Mattino” 6 giugno 2004
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