Un brindisi a miglior vita: la scienza dell’avvelenamento

veleno

Morti misteriose e spesso atroci causate da pozioni preparate da oscuri alchimisti nei loro laboratori: dall’Impero romano in poi, la storia è costellata da episodi di avvelenamento. E lo studio delle sostanze letali, del loro sviluppo e del loro utilizzo non si ferma agli intrighi delle corti rinascimentali, ma continua tra i segreti dei centri di ricerca militari di oggi

 “C’è una sostanza che si chiama arsenico e se un uomo ne mangia anche una piccolissima quantità immediatamente avrà la morte; la troverai a Bordeaux in tutte le farmacie. Prendi questa sostanza, riducila in polvere e vai a Parigi. Quando sarai giunto nel palazzo del conte di Valois, raggiungi le cucine e metti questa polvere nella minestra, nelle carni e nel vino…”. Questo biglietto ritrovato nel 1384 nelle vesti del menestrello Woudreton, subito giustiziato nella piazza di Grève, e scritto dal suo padrone Carlo re di Navarra (detto, manco a dirlo, “Carlo il Cattivo”) è una delle tante testimonianze pervenuteci sull’arte dei veleni.

La storia dei venefici (e cioè omicidi commessi con il veleno) affonda nella notte dei tempi, come testimoniato dalla Bibbia e dall’Odissea. Nel bacino del Mediterraneo, si utilizzavano veleni di provenienza animale (quali la cantaridina ricavata da alcuni insetti sangue fermentato di toro, polveri varie ricavate da crostacei e salamandre) e provenienza vegetale (aconito, oppio, belladonna, assenzio, cicuta). Queste sostanze erano però instabili e spesso inefficaci; il veneficio rimase, perciò, circoscritto a pochi episodi fino a quando non irruppe sulla scena l’arsenico.” La tossicità (200 milligrammi uccidono un uomo) di questo minerale, impiegato in metallurgia nell’antichità, era già conosciuta da epoca remota ma, probabilmente, furono le repentine morti dei minatori che ne inalavano le polveri estraendolo dalle miniere del Monte Amiata a renderlo, nel Terzo secolo avanti Cristo, “popolare” tra i Romani. ” Il “successo” dell’arsenico era garantito da una sua caratteristica: somministrato in piccole e continue dosi, porta nell’individuo un progressivo stato di prostrazione che, in assenza di una indagine tossicologica, può essere interpretato come il decorso di una malattia a esito mortale. Ovviamente, poteva essere vero il contrario e cioè attribuire all’arsenico una morte dettata, invece, da qualcuno degli innumerevoli morbi che affliggevano i sudditi della Città Eterna. Non a caso, oggi gli storici sono molto più cauti che in passato nell’attribuire a veneficio la morte di persone illustri, e neanche le tracce di arsenico riscontrate nei capelli della salma di Napoleone sono riuscite a dare una risposta inequivocabile al perché della sua morte.” Con il beneficio del dubbio vanno quindi considerati come veneficio le morti dell’imperatore Augusto, avvelenato dalla moglie Livia, o quella del figlio di Catilina, ucciso dal padre. Mentre andrebbe nettamente ridimensionata la figura della maga Locuste che secondo storici latini fu “consulente” in ben tre famosi avvelenamenti: quello di Caligola, ucciso dalla madre del suo successore Claudio; di Claudio, avvelenato dalla nipote Agrippina; e quello di Britannico, ucciso dal fratellastro Nerone.”

Ma più che Locuste e Comidio (altro famoso “consulente” in avvelenamenti che, con la scusa di insegnare gli antidoti organizzò, nel 40 dopo Cristo, una vera e propria accademia del delitto) durante l’Impero romano l’avvelenatore per eccellenza fu Mitridate VI Eupatore, re del Ponto. Forte del suo “consulente scientifico”, tale Crateuas, Mitridate (che ogni giorno ingeriva piccole quantità di ogni veleno per immunizzarsi) con una sua misteriosa pozione la Triaca riusciva ad avvelenare i pozzi situati lungo i percorsi dei suoi nemici e, successivamente, a bonificarli. La composizione della Triaca fu appresa dai Romani quando Pompeo, nel 63 a. C. in Crimea, riuscì a espugnare il palazzo reale di Mitridate e trafugarne la ricca biblioteca. Il segreto della Triaca (utilizzata, pare, anche da Andromaco, un “consulente” di Nerone) si è tramandato per più di mille anni e probabilmente, l’ultimo a conoscerne la composizione è stato Maimonide Mosè, nome latinizzato con cui è noto Mosheh ben Maimon, un medico ebreo vissuto a Cordóba e poi al Cairo nel dodicesimo secolo. “

Con il Medio Evo anche la “scienza dei veleni” conosce un declino e, diventato raro l’arsenico (i veneziani dovevano importarlo a peso d’oro dall’India) ci si rassegnò ai veleni di origine vegetale o animale classificati, nel Secondo secolo dopo Cristo, da Claudio Galeno. Il Rinascimento, con la nascita della Chimica, segna l’irrompere sulla scena di nuovi veleni, in primo luogo l’antimonio, scoperto da Basilio Valentino e tutta una serie di nitrati scoperti da Teofrasto Paracelso; nel 1593, il napoletano Giambattista Della Porta mette per iscritto la ricetta di una pozione velenosa di sua invenzione: calce viva, vetro filato, aconito, arsenico giallo e mandorle amare con miele. ” Intanto, nelle corti europee, si diffonde l’ambigua figura dello “speziale”. Renato Bianchini, per esempio. Quasi certamente fu lui a consigliare a Caterina de’ Medici, sposa del re francese Enrico II, di cospargere solfuro di arsenico sulle pagine di un libro destinato a essere letto (e quindi sfogliato con un dito inumidito dalla saliva) da Enrico di Navarra, andato in sposo alla figlia. Per un disguido il libro finì, invece, nelle mani del figlio di Caterina, Enrico III, che morì tra atroci sofferenze.” Ma fu l’Italia nel Rinascimento la patria dei veleni tanto da far dire a Machiavelli, che “erano diventati una consuetudine così radicata da non suscitare più interesse o indignazione da parte degli italiani”. Nel nostro Paese le lame delle spade, come ci narra Pietro da Abano, venivano comunemente avvelenate immergendole nel succo di aconito, mentre cardinali e vescovi circolavano sempre accompagnati da “assaggiatori” ai quali era stato subito appioppato un santo protettore e apposite indulgenze in caso di morte “sul lavoro”. Il Rinascimento, del resto, è l’epoca d’oro dei Borgia, una famiglia passata alla storia soprattutto per l’uso disinvolto della “canterella”, veleno ottenuto facendo evaporare urina in un contenitore di rame e mescolando i sali così ottenuti con arsenico. “In effetti spiega la professoressa Amalia Scotto di Tella, docente di Tossicologia forense all’Università di Napoli l’alcalinizzazione e la trasformazione in sale dell’arsenico, attraverso l’ammoniaca contenuta nell’urina, conferisce a questo minerale una elevatissima tossicità”. Lo stesso effetto sinergico di altri veleni usati nel Rinascimento come l'”acquetta di Perugia”, ottenuta dalla carcassa di un maiale impregnata di arsenico, o l'”acqua di Napoli”, composta da una soluzione di anidride arseniosa addizionata con un alcoolato di cantaridina.”

Nel Diciassettesimo secolo Robert Boyle getta le fondamenta dell’analisi chimica che si estenderà ben presto all’individuazione dei veleni. Nasce così la “tossicologia” che si guadagnerà un posto di rilievo nelle aule dei tribunali soprattutto quando, verso la metà dell’Ottocento, altri studiosi mettono a punto una procedura per identificare nei cadaveri tracce, pur infinitesime, di arsenico. Anche per questo gli avvelenatori cominciarono a orientarsi verso nuove sostanze, per esempio la stricnina. ” Questo alcaloide presente in piccole quantità nei semi di Strychnos nux vomica, un albero indigeno dell’India nella metà dell’Ottocento fu sintetizzato e prodotto in grande quantità. La stricnina, infatti, per le sue capacità di eccitare il sistema nervoso, veniva assunta come una vera e propria droga, soprattutto tra le classi abbienti di Londra e Parigi. Si verificarono così casi di persone incriminate per avere avvelenato soggetti che, invece, avevano semplicemente ecceduto con la dose giornaliera di veleno. Quasi certamente, fu questo il caso di Florie Maybrick, condannata a morte nel 1890 per l’uccisione del marito James (abituale consumatore di stricnina e arsenico) che, secondo un controverso diario scoperto qualche anno fa, avrebbe, sotto l’effetto dei veleni, assassinato a Londra cinque prostitute guadagnandosi il nome di “Jack lo Squartatore”. ” Pillole per agenti segreti ” In tempi più recenti, è soprattutto nei laboratori militari statunitensi di Fort Detrick e di Edgewood Arsenal che, alla luce di documenti recentemente declassificati, è continuata la ricerca di nuovi veleni. ” “Armis bella non venenis geri”: la guerra si fa con le armi e non con i veleni decretavano i giuristi romani ma la guerra si fa per uccidere e ogni veleno trova il suo posto negli arsenali. Per esempio le tossine.” La produzione di tossine (dal latino “toxicus” e cioè veleno) sembrerebbe essere un privilegio concesso a quegli animali destinati altrimenti a scomparire dalla faccia della Terra: serpenti poco prolifici e scarsamente dotati fisicamente, come il cobra, gracili pesci quali l’Arothron hispidus o l’Arothron meleagris, minuscole rane quali la Phyllobates aurotaenia, o la Taricha torosa, insignificanti molluschi quali il Mytilis californianus, o il Conus magus, devono la loro sopravvivenza a queste prodigiose sostanze da millenni utilizzate dall’uomo per intingere la punta delle frecce o delle lance. Ma anche alcuni microrganismi producono velenosissime tossine. Per esempio una microscopica alga rossastra che occasionalmente popola le coste delle isole Hawaii, battezzata dagli indigeni Limu make o Hana e cioè la mortale alga di Hana.” Nel dicembre 1961 la fulminea morte di alcuni sub americani che si erano graffiati sulle scogliere coralline nel mare popolato da questo organismo aveva attirato l’attenzione degli scienziati militari. Il 31 dicembre, Philip Helfrich del Laboratorio di Ricerche Marine dell’Università delle Hawaii si recò sul posto per prelevare i primi campioni del microrganismo che spedì a Edgewood Arsenal. La creatura venne classificata nel genere del Palithoa e, quindi, la sua tossina, chiamata palitossina, trovò il suo posto negli arsenali dei servizi segreti. E non solo di quelli occidentali considerato che, nell’agosto 1978 a Londra, con un minuscolo dardo, avvelenato da questa sostanza e “sparato” da un falso ombrello, venne assassinato, verosimilmente dai servizi segreti bulgari, il dissidente Georgi Ivan Markov. “

Un’altra tossina studiata dai servizi segreti è stata quella prodotta in natura da un protozoo marino appartenente ai Dinoflagellati. Questa saxitossina garantiva alla persona che l’avesse ingerita una morte istantanea e fu rilevata dalla CIA per essere destinata a uno scopo del tutto particolare: il suicidio dei propri agenti. La prima pillola per il suicidio degli agenti segreti catturati dal nemico fu sviluppata agli inizi del secolo conteneva cianuro di potassio, un veleno sintetizzato nel 1850 dal chimico americano Hamilton Y. Castner che uccide dopo un’insopportabilmente lunga e atroce asfissia. Si trattava, quindi, di una pillola poco popolare tra gli agenti segreti che in qualche caso si erano rifiutati di ingerirla, finendo per spifferare al nemico inconfessabili segreti. Molto meglio, quindi, la saxitossina. La produzione di questa sostanza è però estremamente complessa: ci vogliono 100 chilogrammi di rarissimi crostacei che vivono nelle gelide acque dell’Alaska per produrre appena un grammo di saxitossina. ” Nel 1958, gli scienziati della CIA erano riusciti, comunque, a produrre ben 11 grammi di questa sostanza e una quantità infinitesimale fu consegnata a Francis Gary Powers, pilota dell’aereo spia U2, con l’ordine di ingerirla qualora fosse stato abbattuto durante i segretissimi voli di ricognizione che andava compiendo nei cieli dell’Unione Sovietica. Nel maggio 1960 l’aereo spia U2 fu abbattuto dalla contraerea sovietica ma Francis Gary Powers, sbalordendo i suoi superiori, decise di soprassedere all’operazione consegnandosi vivo ai servizi segreti del Cremlino. E’possibile che la reazione del pilota abbia spinto gli scienziati della CIA a orientare i loro studi verso nuovi e più appetibili veleni. ” Di certo le ricerche, a Fort Detrick e in altri laboratori militari, continuano.

Articolo di Francesco Santoianni

Un brindisi a miglior vita: la scienza dell’avvelenamento 

(pubblicato su Newton agosto 1999)

 

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