Kobanê e le Giovani Marmotte

È già successo per Aleppo. È già successo per Homs. È già successo per Shaer e per tanti altri centri urbani in Siria. Decine di migliaia di inermi civili asserragliati nelle loro abitazioni, malamente difesi da un pugno di soldati e poliziotti, assediati da orde di tagliagole armati dall’Occidente e dalle Petromonarchie. In molti casi, all’assedio è seguita una strage. In due anni decine di migliaia di persone uccise così in Siria. Ma nessuno (o quasi) ha avuto nulla da ridire. Ora è arrivato il turno di Kobanê – nel Kurdistan siriano – ed è un tripudio di appelli e manifestazioni. La prossima, il primo novembre a Roma. Perché due pesi e due misure? Ho cercato di porre la questione in una assemblea qui a Napoli ma la sconsolante risposta è stata quella da logica di Giovani Marmotte: “Ma come si fa a non muoversi per Kobanê oggi che tutto il mondo ne parla?”

Perché di questo si tratta. La mobilitazione per Kobane nasce dalla “demonizzazione” dell’ISIS elargita per settimane e settimane da TV e mass media. Ci hanno fatto credere che si trattasse di qualcosa di diverso, di più efferato, delle tante bande, benedette dal Gruppo “Amici della Siria” (Italia in prima fila) messe su per abbattere il regime di Assad e trasformare la Siria in un’altra Libia. E da questa operazione mediatica, le vittime predestinate dei terroristi – le popolazioni curde della Rojava (l’area curda della Siria) – sono state assurte dai mass media (e non solo da loro) al ruolo di agnelli sacrificali, da salvare ad ogni costo. Anche invocando l’intervento dell’aviazione USA-NATO.

Poi c’è la mitizzazione della Rojava che, in molti compagni, ha preso il posto del favoloso Chiapas, ora completamente dimenticato. Certo, nessuno pretende oggi la costituzione di una Repubblica dei Soviet in Medio Oriente e Ochalan, messo da parte il Marxismo, ora veleggia sulle insulse posizioni ecologiste di Murray Bookchin. Ma francamente non si capisce la sconfinata ammirazione dei tanti per la Carta di Rojava che, in ultima analisi, prefigura un capitalismo dal volto più ecologico e con quote rosa al di sotto di quelle renziane. E uso volutamente questo tono sprezzante perché – a fronte dell’enfasi che ha avuto la Carta di Rojava – nessuna attenzione ha meritato un altro ben più importante statuto,  scritto anch’esso da una comunità minacciata di sterminio, quella del Donbass. Ma, si sa, meglio stare alla larga dalle mobilitazioni per l’Ucraina che si rischia di essere additati come “servi di Putin”.

Ma parliamo della manifestazione del primo novembre. Ovviamente mobilitarsi contro la mattanza che si sta prefigurando anche nella Rojava è un dovere sacrosanto di tutti i comunisti, di tutti i democratici; ma perché farlo accodandosi ad un appello firmato anche da organizzazioni che non si sono mai vergognate di sostenere quei tagliagole (da esse ribattezzati “ribelli”) che continuano a insanguinare la Siria? Ma come si fa ad accettare nell’appello che indice la “Manifestazione Globale contro ISIS – per Kobanê – per l’Umanità” passaggi come “ La popolazione di Kobanê sta cercando di resistere usando armi leggere contro i più brutali attacchi dei terroristi di ISIS, assistita solo dalle Unità di Difesa del Popolo nel Kurdistan occidentale YPG e YPJ, ma senza alcun aiuto internazionale”, quando quel poco che resta dell’esercito siriano, combattendo da mesi contro l’ISIS, sta facendo immensamente di più a favore dei curdi dei bombardamenti USA-NATO, oramai invocati da tanti compagni? Ma come si può?

Credo che non freghi nulla a nessuno, ma il primo novembre non sarò a Roma alla manifestazione per Kobanê. Mi dispiace, avrei voluto esserci; ma con questi presupposti e le tante bandiere a tre stelle pronte per sfilare lì, non mi va di dare una mano agli sponsor dei “ribelli” che dopo questa (temo grande) manifestazione si stanno già pregustando per la Siria un’altra Libia.

 

Francesco Santoianni

 

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